Passando in gommone tra le piccole isole sarde, in tarda primavera, s’inspira il
profumo della ginestra selvatica in fiore: è un arbusto basso, spinoso che
martoria le gambe attraverso la muta, quando percorrendo a piedi la macchia
mediterranea evito il ritorno a nuoto lungo un litorale già battuto.
Il profumo è dolce, stordente.
Non si avverte all’alba, quando teso come la corda di un arco, viaggio verso la
zona prescelta per la battuta di pesca, ma al ritorno, con la tensione venatoria
completamente allentata, il sole già alto e gli insetti in piena attività.
Suoni e profumi creano nella nostra mente associazioni strane e molto
personali: per anni mi sono trascinato l’ansia provocata dal garrire delle prime
rondini a ricordarmi l’anno scolastico ormai al termine, con poco tempo per
recuperare le insufficienze, croniche, in quel periodo.
Le rondini sono ormai quasi sparite dalle città, per un complesso problema di
equilibrio ecologico, ma quando mi capita di ascoltare il loro stridulo garrito, a
quasi cinquant’anni di distanza, mi assale ancora l’ansia di dover recuperare
qualcosa di perduto!
Per lo stesso tipo di associazione, il profumo della ginestra in fiore, fino alla
fine dei miei giorni, ricorderà l’arrivo dei primi dentici e la gioia di avere un
bestione ben sistemato nel frigo, a bordo del gommone.
Mi chiedo quanti altri esseri umani abbiano provato l’appagamento interiore
provocato da un dentice a paiolo mentre navighi sulle onde: gli occhialoni sul
viso a proteggere gli occhi dagli insetti, il sole che riesce a malapena ad
attenuare i brividi di freddo dopo quattro ore di immersione.
Il pensiero durante la navigazione si crogiola lì, misto al profumo di ginestra
che ti inebria la mente, nella ripetizione della scena dell’approccio dello
splendido animale.
Scivolando sulle onde, i pensieri, poi rincorreranno altre ispirazioni, altri
momenti, altri problemi della propria vita, ma l’effluvio della ginestra in fiore,
terrà incatenato il subconscio a quell’emozione per molte ore ancora, perché
certi particolari della cattura: l’occhio aggressivo la gibbosità della schiena, il
taglio ripido del muso, i suoi movimenti prima di arrivare a tiro, come lampi
improvvisi, attraverseranno la mente trasmettendo un brivido d’estasi.
Quale ghiandola interna secerne la sostanza chimica che provoca queste
emozioni nel nostro organismo ?
Potessi io, scoprire tale sostanza!
Nei momenti di crisi e di sconforto della mia vita, pur ricca di soddisfazioni,
potrei “drogarmi” con “l’estratto di cattura di dentice” per sentirmi subito
appagato…
Mah, forse è più semplice continuare a catturarli.
Il profumo della ginestra si è perso da tempo nell’aria, lasciando ad altre piante
aromatiche il fascino di profumare la mia isola.
Nel frattempo dove noi non possiamo inspirare i profumi, è accaduto un
fenomeno insolito: in un diario precedente ho descritto la presenza di branchi
di dentici sulle secche profonde per buona parte del periodo invernale, quando
questo predatore, solitamente, preferisce migrare verso le profondità del mare
(50/60 metri).
Le ragioni di questo comportamento sono già state affrontate in altri diari e
sicuramente si integreranno con ciò che sto per dire.
Questo inverno la temperatura dell’acqua si è mantenuta, per un lungo
periodo, più calda della media stagionale degli altri anni, favorendo la
permanenza dei branchi intorno ai cappelli delle secche dove sono solito
insidiarli la tarda primavera, l’estate e l’autunno.
Anche la corrente dominante, nel Tirreno, che corre lungo le coste della
penisola da sud verso nord, formando un anello antiorario, curva nel Golfo
Ligure e poi ritorna a sud lungo le coste della Corsica e della Sardegna, è stata
praticamente assente.
Un brusco cambiamento del clima, poi, ha spruzzato di neve le colline con gli
aranci in fiore, portando al raffreddamento degli strati superficiali del mare ed
il movimento convettivo (acqua più calda a salire dal fondo verso l’alto, acqua
più fredda a scendere dalla superficie verso il basso), rimescolando l’acqua, ne
ha abbassato la sua temperatura media .
Conseguenza delle mutate condizioni climatiche: i dentici sono spariti!
Ancora oggi, a metà maggio, a venti metri di profondità, l’acqua del mare
raggiunge a mala pena i 13 °C.
Nei primi metri in superficie, nelle anse della costa senza corrente, si
percepisce però un leggero termoclino: qualcosa nell’acqua sta cambiando!
Il 13 e il 14 maggio sono accaduti due eventi premonitori.
13 maggio:
il mare perfettamente immobile con poca vita osservata sotto costa,
nonostante la temperatura dell’acqua, mi spinge a qualche immersione più
profonda, più per un controllo della situazione, che nella convinzione di
concludere qualche cattura.
Anche nei giorni precedenti, l’esplorazione delle quote intorno ai venti metri
avevano offerto solo qualche fasciato di taglia e qualche avvistamento di
piccole cernie, pure loro poco vivaci a causa della bassa temperatura!
La situazione anche oggi si presenta con la stessa scarsa attività, tranne che
per le castagnole, nell’acqua torbida, sempre molto nervose.
Tutto ciò, finché non mi affaccio in uno spacco nella roccia molto ampio,
inclinato verso il fondo, alla base di un panettone di granito che si appoggia,
imponente sulla sabbia, a 26 metri di profondità.
Questa ampia incavatura si stringe dopo essere penetrata nella roccia per
quattro cinque metri, fino a diventare una stretta spaccatura.
Entrato nel vano dalla parte ampia più vicina alla superficie, scrutando verso il
fondo, ai miei occhi si presenta una situazione incredibile, visto il deserto
circostante.
Al primo colpo d’occhio si stagliano in controluce, sollevati rispetto la parete
rocciosa del fondo dello spacco, una decina di saraghi di 7/8 etti.
Si spostano nervosi, molto più di due cernie che appena individuata la mia
presenza, mi puntano col muso nella classica posizione leggermente obliqua
rispetto al fondo.
Lo spacco è poco illuminato e lungo una decina di metri, così, inizio una
manovra di avvicinamento a velocità non aggressiva: pinne ferme e trazione
sulla roccia con la mano sinistra.
Il piano inclinato dello spacco favorisce la successione di piccoli spostamenti,
tipo gatto che tende l’agguato ad un piccione. Ad ogni trazione della mano,
però, l’accelerazione del corpo provoca un sussulto nel branco dei saraghi ed
uno spostamento nervoso delle due cernie.
La più grossa (8.5 chili) dopo poco si
infila definitivamente nella parte
stretta e sicura dello spacco: per un
condizionamento istintivo, finisce nella
sua trappola. La più piccola di 3 / 4
chili continua a tenermi d’occhio,
sempre un po’ più vicina alla strettoia.
Il branco di saraghi al movimento
brusco della cernia più grossa sono
esplosi a raggiera, ed ecco che appare in controluce anche un dentice
probabilmente attirato dal rumore dei loro guizzi. Stimo il suo peso intorno ai
sei chili.
Mi immobilizzo senza ottenere l’effetto sperato di far avvicinare il predone che
non si decide ad entrare nella spaccatura e gira inquieto sull’imboccatura.
Avanzo ancora un metro con una lentezza esasperante per la mia apnea e la
mia fame d’aria, ora si trova a 4 metri e rischio il tiro.
Dentro lo spacco il rumore degli elastici e dell’ogiva che urta contro la testata
viene amplificato ed ho la netta sensazione che il dentice lo avverta in tempo e
“scodi via” prima che arrivi l’asta.
Il suono in acqua viaggia a 1461 metri al secondo contro i 342 m/sec dell’aria,
mentre la mia asta a fine corsa non è più veloce di 10 m/sec: il dentice ha
avuto così tutto il tempo di sentire il rumore del tiro amplificato dalla nicchia
rocciosa e di girarsi, infatti, mirato di traverso viene colpito dietro l’opercolo
nella sua direzione di fuga.
Lo scatto di questo sparide è impressionante, prima o poi riuscirò a misurarlo…
fatto sta che la velocità d’impatto dell’asta, differenza tra la sua velocità
relativa e la velocità di fuga del pesce, fa giungere l’asta al bersaglio con poca
energia; risultato: l’asta non passa il corpo e l’aletta non si apre, ma questo lo
scoprirò solo dopo.
Quello di cui mi accorgo subito, invece, è che il pesce mi strappa il fucile di
mano, non avevo ricordato che per tirare ai saraghi, come capitava più
frequentemente in quei giorni, avevo stretto la frizione del mulinello fino a
bloccarla (la pigrizia di non voler riavvolgere la sagola ad ogni tiro!).
Vedo allontanarsi l’impugnatura bianca del mio ultimo prototipo di fucile in
legno, costato una settimana di lavoro, con un senso di smarrimento e
disperazione.
Mentre risalgo penso già di dover tornare in officina e mettere in lavorazione
una nuova testata ribassata e dover inventare una scusa per Gianni, il capo
officina, e convincerlo ad impegnare l’unico tornio rimasto (l’altro è smontato in
attesa della rettifica delle guide).
Salgo in diagonale per seguire visivamente l’impugnatura ma dopo pochi
secondi scompare.
Mentre ventilo, mi convinco che il dentice ha trovato uno spacco e si è fermato!
Il suo comportamento con l’asta in corpo è quasi sempre lo stesso : cerca
rifugio in una tana stretta e si dibatte cercando di togliersi l’acciaio dalla carne.
E “come per miracolo” (diceva Prévèrt in una poesia) alla prima immersione di
ricerca individuo l’impugnatura che galleggia cinque metri sopra il fondo e “me
la ghigno”: se avessi avuto il fucile che Fabrizio mi ha dato da provare, con
l’impugnatura colore del legno, non lo avrei individuato e lo avrei perso
irrimediabilmente.
Scendo sul fucile e sblocco la frizione facendo riemergere il fusto, il dentice si è
intanato a più di trenta metri e devo togliere un po’ di zavorra dalla cintura se
voglio lavorare in sicurezza, intanto vado a recuperare Massimo che sguazza
felice nel basso fondo: abituato all’acqua nera di Civitavecchia, gode solo nel
riuscire a vedere i colori dei pesci…
Lo informo dell’accaduto ed anche lui mi segue in acqua per assistermi nelle
successive operazioni.
Non so per quale ragione, però, decido di controllare prima la posizione della
cernia (forse per l’immobilità innaturale dell’impugnatura sopra lo spacco) e mi
affaccio con la torcia spenta nella parte stretta della spaccatura, dove
accennavano a volersi rifugiare.
Le due cernie stanno una di fianco all’altra e mentre tiro alla più grossa,
telepaticamente mando un messaggio alla più piccola: “guarda, impara e tieniti
alla larga!”
La cernia colpita dall’alto verso il basso, sembra venire fuori dalla spaccatura
con facilità, ma poi si incastra nelle parte più stretta dello spacco.
Mi ostino con poca lucidità a volerla fare uscire ugualmente da dove non può
uscire! Continuo a ripetermi che la testa è piccola e passata quella, passa
anche il resto del corpo, ma per la taglia modesta del pesce questa valutazione
anatomica risulterà errata.
Finalmente torno al gommone per
prendere il mezzo marinaio e istruisco
Massimo: “appena senti muovere la
sagola recupera il pesce”.
Torno nello spacco per infilare il mezzo
marinaio nella bocca della cernia e
spingerla indietro fino alla parte più
larga dello spacco, detto fatto, in un
tuffo si risolve il recupero.
Per pochi minuti ho avuto i due fucili a galla attaccati ad un pesce situazione
che non mi capitava da anni, ma era solo un’illusione!
Torno sul fucile del dentice per scendere “in ghiacciaia” a recuperarlo:
Affacciato all’imboccatura mi accorgo che la tana non è chiusa, ma passante e
il pesce non c’è più. Mentre recupero l’asta osservo l’aletta che ho montato:
“troppo piccola”, mi ripeto tra me e me. Per questi pesci è necessaria una
doppia aletta di buone dimensioni o una monoaletta robusta, ma chi se
l’aspettava!
14 maggio: il giorno dopo, sempre con Massimo, aletta idonea ad una pesca
profonda, insagolo subito tre corvine di cui, una all’agguato profondo con il
branco che mi viene incontro ed io che concludo l’attacco con un “aspetto”.
E’ la prima volta nella stagione che inizio a muovermi all’agguato, a profondità
tra i venti e i trenta metri, costa fatica,ma ne è valsa la pena.
L’itinerario di perlustrazione, collaudato da anni, dopo la cattura delle corvine,
prevede l’esplorazione di un altro spacco storico della mia esperienza di
pescatore Questa ampia apertura nella roccia mi ha fruttato decine di dentici,
tutti di grossa taglia e conferma la passione di questo sparide per le ampie
cavità dove i suoi agguati hanno più successo.
MA DOVE HA SUCCESSO L’AGGUATO DEL DENTICE …?
La roccia in questione è un grosso panettone di granito con un ampio spacco
passante, a forma di “T”, che sul lato superiore si affaccia su un pianoro, dove
stazionano spesso i dentici tra una puntata e l’altra dentro la fenditura.
Entro sempre dallo stesso lato dov’è più efficace nascondersi ed avanzare.
Oggi, però, sono distratto da un grosso sarago, visibile dalla superficie mentre
con gli incisivi stacca il substrato dalla roccia vicino al mio punto di ingresso e
sarei tentato di tirarlo avvicinandomi in caduta a foglia morta, ma nel caso di
un tiro in quel punto, metterei in forse l’agguato successivo ai dentici o a
qualche preda più grossa.
Non voglio neppure che scodi bruscamente mettendo in allerta tutti i pesci
della zona, così mi immergo con molta cura planando subito a pinne ferme, gli
passo vicino, prima di sfiorarlo, mi vede e si allontana di qualche metro un po’
stizzito.
Entro nella parte
orizzontale dello
spacco e appena ho la
visione dell’interno, mi
trovo di fronte a un
dentice. Sono col
corpo in verticale, la
testa rivolta in
orizzontale, nella
posizione classica del
pescatore subacqueo
che sta per arrivare sul
fondo e scruta il circondario e devo ancora allineare il fucile (in pratica non
sono pronto). Quando, il bestione si allontana, sullo sfondo in controluce,
all’incrocio tra la parte verticale dello spacco e quella orizzontale, un’orata di
proporzioni esagerate, insieme ad altre più piccole forma uno splendido
quadretto.
Il dentice messo in allerta, però, si allontana nervoso trascinando via tutta
quell’abbondanza.
Mi sono giocato le prime opportunità!
Durante i pochi secondi della scena, nel frattempo, avevo avvertito il ticchettio
di un branco di corvine che rimbombava nello spacco, probabilmente si
trovavano nella parte profonda e stretta della fenditura.
Provo lo stano “effetto confusione” che assale tutti i predatori di fronte a
troppe occasioni di cattura.
La concentrazione sta per lasciarmi per far posto allo scoraggiamento, ma
proseguo per inerzia verso lo sbocco sul pianoro, così mi accorgo di essere
“agguatato” da un dentice che vista sporgere lentamente la forma scura della
mia testa, dietro l’ultimo dosso roccioso, forse, decide di controllare se si tratta
di un polpo.
Lo prendo in pieno con un tiro ravvicinato e faccio in tempo a impugnare l’asta
prima che si dia alla fuga.
Risalgo in superficie e scappo sperando di aver avere disturbato troppo gli
abitanti del luogo sacro!