Diario di Pesca n°33
inizio estate 2004
Cavalco le onde con sicurezza e disinvoltura, in piedi, sul mio battello
pneumatico.
Sotto di me scorre un territorio conosciuto di guglie, pianori, profonde
spaccature, gradini paurosi sopra gli abissi.
Come ogni cacciatore o predatore animale, sono in perfetta sintonia col mio
ambiente di caccia: il mare.
Un pesce volante schizza fuori dell’acqua davanti alla prua del gommone.
Più al largo una nuvola di gabbiani starnazza con versi acuti sopra una
“mangianza” d’acciughe, a turno si gettano a capofitto nell’acqua per
riemergere con un piccolo pesce nel becco: immagino un gruppetto di Palamite
o qualche Tonnetto che passa veloce sotto il banco di pesci compattato
dall’aggressione dei predatori.
Con uno sguardo, compiaciuto, colgo ogni dettaglio della scena che si svolge
alle prime luci dell’alba.
Come loro, io batterò una secca conosciuta, al largo della costa, calerò l’ancora
nel solito punto allineando le “mire” in terra e ripeterò un percorso di caccia
abituale.
Dai banchi della memoria riaffiorano le molte catture svolte in quel teatro
naturale: i punti precisi dove sono avvenute, le circostanze, e un brivido di
piacere eccita i neuroni del mio cervello di cacciatore.
Unico possibile imprevisto: la corrente!
Guardo filare la cima dell’ancora verso il fondo, la legherò ad una corta sagola
fissata alla prua del battello, studierò poi con calma come si disporrà
sull’acqua, i mulinelli che si formeranno intorno alla poppa, la rotazione
dell’elica a motore spento.
D’improvviso la mia sicurezza svanisce sopraffatto da un senso di sconcerto e
di sorpresa.
Il gommone è circondato da migliaia d’olive verdi portate dalla corrente sulla
superficie del mare appena increspato.
Non le avevo notate in navigazione quando, alle prime luci dell’alba, il mare
calmo appare come una superficie uniformemente scura.
L’arroganza del cacciatore lascia il posto all’umiltà e alla curiosità del
naturalista.
Immediatamente, la parte razionale del mio cervello cerca una spiegazione
logica all’evento apparentemente alieno.
Nel passato, avevo vissuto un’esperienza simile con una scia di noci che
galleggiava sull’acqua, probabilmente, il contenuto di alcuni sacchi caduti da
un cargo.
Sorrido al ricordo dei mesi passati a mangiare tutte le noci che avevo raccolto
e infilato nella ghiacciaia insieme ai pesci.
Quando mi trovo in mare sono preso dal “complesso del rigattiere”: devo
raccogliere tutto ciò che trovo e mi può servire (ho una raccolta infinita di
ancore disincagliate…).
Forse è un carico di olive verdi caduto in mare.
Ne raccolgo una e prendo gli occhiali nella busta stagna dei documenti per
esaminarla.
Sembra una ghianda, un baccello chiuso, verde brillante, con un picciolo corto
all’estremità.
Osservo intorno: ce n’è qualcuno aperto come un fiore, la scorza esterna con
piccole macchie marrone.
Per lo più sono vuoti, ma ne trovo uno con due cotiledoni all’interno color
verde pisello.
Scioccamente penso ai semi di qualche pianta terrestre rivierasca che,
squassata dal vento dei giorni precedenti, abbia lasciato cadere i sui semi nel
mare.
Sono, invece, i semi della Posidonia oceanica: una pianta che al termine del
suo percorso evolutivo dopo aver colonizzato la terra ferma è tornata in mare.
Non si tratta di un’alga (come spesso la chiamiamo noi pescatori subacquei),
ma di una pianta superiore dotata di radici, fusto, foglie, fiori e frutti.
Non avevo mai notato questi semi in precedenza forse perché la loro
produzione negli anni precedenti era stata più limitata.
Mi guardo ancora intorno: ce ne sono a migliaia!
Man mano che il sole si alza sull’orizzonte il fenomeno appare sempre più
imponente.
Il tempo avverso, le mareggiate e lo studio in vasca del tiro dei miei fucili mi
hanno tenuto lontano dalla pesca, probabilmente il rilascio dei semi è
avvenuto già da qualche settimana.
Peccato non aver potuto seguire l’evento straordinario direttamente dai
posidonieti.
Un testo di biologia marina, poi, illuminerà (anche se non giustificherà) la mia
ignoranza e lo sconcerto di fronte ad un evento naturale così importante,
perché la Posidonia è un vero polmone nella produzione d’ossigeno: un metro
quadro di prateria è in grado di produrre per fotosintesi anche 14 litri
d’ossigeno il giorno.
La fioritura di questa pianta non avviene tutti gli anni ed è influenzata dal
riscaldamento delle acque.
L’estate del 2003, in effetti, ha vissuto punte altissime della temperatura
dell’acqua del mare (ricordo di aver misurato anche 30 ° C nelle acque
superficiali).
Sapevo che la posidonia si riproduceva per l’accrescimento in orizzontale e in
verticale dei rizomi (nell’allargamento delle zone già colonizzate), e (non citato
nei testi di biologia marina, ma per osservazioni personali), lontano dalle
praterie d’origine per l’attecchimento, in alcuni punti favorevoli, delle radici
d’alcuni pezzi di rizomi con alcune foglie, strappati dalla forza delle onde
durante le mareggiate.
Avevo riflettuto, in proposito, sul divieto propugnato da molti biologi
ambientalisti dell’ancoraggio delle barche sui posidonieti, a tutela delle
praterie, quando probabilmente, i rizomi strappati dalle ancore e portati dalle
correnti, possono rappresentare una causa di riproduzione…
Sono andato a cercare, con curiosità, dove, e se, qualche seme aveva
attecchito nel basso fondo e, qualche settimana dopo l’avvistamento delle
“olive di mare” (così sono chiamate), ho trovato in una nicchia del terreno i
due cotiledoni del seme leggermente divaricati con piccole radici che si
diramavano dal nucleo centrale del seme per estendersi nel terreno.
La curiosità, naturalmente, era di scoprire se il seme poteva trasformarsi anche
in un potenziale cibo per i pesci che non perdono mai l’occasione di sfruttare a
loro vantaggio questi eventi straordinari (vedi diario sulla Velella velella).
Sapete dove ho trovato i semi della Posidonia?
Nello stomaco dell’orata!