Chi siamo #7
Nell’ultimo articolo di questa serie nella quale analizzo un momento, a mio
avviso, cruciale della nostra storia: il passaggio dalle società di
cacciatori/agricoltori a quelle degli allevatori/agricoltori, prima di giungere alle
conclusioni, voglio commentare ancora un passo dello studio di Raffaele
Caterina sul parallelo tra la caccia dei primati più vicini all’uomo e quello delle
bande di cacciatori africani.
CACCIA UMANA E CACCIA ANIMALE.
Può essere interessante prendere in esame le regole che i primati diversi
dall'uomo seguono nelle loro attività venatorie. Tra i primati, solo i babbuini e
gli scimpanzé sono consumatori più o meno abituali di carne. A noi interessano
soprattutto gli scimpanzé, che adottano una struttura detta "a gruppo aperto",
in cui le gerarchie sono elastiche e all'interno del gruppo si possono formare e
disfare altri aggruppamenti più piccoli unisessuali o misti: una simile struttura
sociale è probabilmente assai simile a quella dei primi ominidi, e certamente ci
ricorda maggiormente i popoli di cacciatori e raccoglitori esaminati, della
società rigidamente gerarchica caratteristica dei babbuini. Le proteine animali
non sono fondamentali per gli scimpanzé; la caccia, d'altronde, si svolge
sempre quando l'animale è già sazio.
Ciò non rende comunque troppo dissimile la condizione dello scimpanzé da
quelle delle popolazioni studiate: di solito si dice che lo scimpanzé è un
"collector-predator", cioè un raccoglitore-predatore con carattere di non
sistematicità e alto grado di opportunismo, mentre ad esempio i Boscimani, o i
Pigmei, sono definiti "gatherers-hunters", il che indica una vera e propria forma
di economia con una sistematica pianificazione della raccolta e della caccia; ma
resta il fatto che anche le popolazioni umane studiate non vivono
fondamentalmente di caccia.
Non può non colpire il fatto che è frequentissimo il caso di società umane,
anche di agricoltori, in cui la caccia, che ha una scarsissima importanza
economica, è un'attività diffusa ed amata (mentre sovente alla caccia con le
trappole, che garantisce magari risultati migliori, non è connessa la stessa
importanza).
Esistono varie ipotesi sul motivo per cui gli scimpanzé cacciano; riteniamo che
lo stesso problema si ponga anche per l'uomo. Tornando agli scimpanzé, essi
cacciano da soli o, più spesso, in gruppo.
Può darsi che uno scimpanzé impegnato in altre attività si accorga di una preda
potenziale a pochi metri, e la catturi; ma spesso la caccia è collettiva e
premeditata, consistendo in un inseguimento più lungo, ed eventualmente in
un accerchiamento con cui le si blocca ogni possibilità di fuga. Spesso la preda
è un babbuino, costretto a rifugiarsi su un albero e lì bloccato. L'interesse e
l'intento predatorio sono espressi con una espressione facciale fissa o assente;
lo scimpanzé diventa insolitamente tranquillo, la postura è tesa e i peli
parzialmente eretti su tutto il corpo.
Gli altri scimpanzè rispondono a questi segnali con movimenti vigili ed eccitati,
che culminano nell'inseguimento simultaneo. Di solito solo i maschi maturi
partecipano alla caccia.
Il momento di maggior interesse è per noi quello successivo all'abbattimento
della preda. Ai fini della consumazione della carne l'ordine gerarchico non
sembra avere alcun valore, nel senso che la preda può essere uccisa da un
animale di grado più basso senza che quello di grado superiore faccia valere
dei diritti sul pasto.
Si osservano in questa fase due categorie di individui, i "proprietari" della
carne, quelli cioè che hanno partecipato alla caccia, ed i "questuanti", che non
hanno collaborato, ma che vogliono della carne.
Esistono meccanismi ben precisi di spartizione.
Innanzitutto, la carne caduta o scartata è lasciata agli scimpanzé giovani e alle
femmine. In secondo luogo, il furto è tollerato solo in alcuni casi. La madre
tollera il furto da parte dei figli. I fratelli tollerano reciprocamente il furto. Il
maschio può tollerare il furto da parte di una femmina disponibile
sessualmente. Al di fuori di questi casi, il furto non è tollerato: chi vuole carne,
deve chiederla attraverso segnali convenzionali.
Chi avanza la richiesta avvicina la faccia a quella del "proprietario" o alla carne,
o stende la mano e tocca la carne stessa o il mento e le labbra dell'altro
animale. Questi può rifiutare, allontanando il proprio bottino o spostandosi in
un'altra posizione. Più spesso, però, acconsentirà, permettendo all'altro
animale di masticare direttamente la carne o di asportarne piccoli pezzi con le
mani, o talvolta strappando pezzi di carne e consegnandoglieli.
Naturalmente noi non discendiamo dagli scimpanzé. Ma è assolutamente
ragionevole supporre che i nostri antenati avessero regole non dissimili, e
probabilmente più complesse, sulla organizzazione della caccia.
Non è dunque necessario, quando leggiamo delle regole che disciplinano la
caccia presso i Boscimani, stupirci, e chiederci come hanno fatto a creare
regole tanto complesse. Non hanno creato nulla, almeno a livello di atto
consapevole. I primi Boscimani ereditavano dai loro antenati non umani regole
probabilmente assai simili a quelle che continuano a seguire.
Il che non vuol dire che si tratti di regole innate, non più di quanto si può dire
che una lingua sia innata. Le regole, e le lingue, che le popolazioni umane
hanno sviluppato sono moltissime, e diverse fra loro. Ma la predisposizione a
parlare è innata, e così è innata la predisposizione a seguire delle regole.
Un animale che abbia la possibilità di comunicare, e di seguire delle regole, può
vivere in gruppo, e più la sua predisposizione è forte, più il gruppo coopererà,
più si troverà avvantaggiato in quella corsa a ostacoli che è la selezione
naturale.
La questione merita forse un maggiore approfondimento. Il profano, quando
sente parlare di selezione naturale, pensa generalmente alla selezione
individuale, a una selezione, cioè, che porta al prevalere dei geni dell'individuo
che ha migliori possibilità di sopravvivere e riprodursi.
E' chiaro che la selezione individuale privilegerà tendenze comportamentali
egoistiche e opportunistiche; l'individuo sarà bensì disposto a sacrificarsi per
salvare il suo patrimonio genetico (un mammifero che non avesse la tendenza
ad aiutare i suoi cuccioli avrebbe ben scarse possibilità di trasmettere i suoi
geni alle generazioni future), ma non coopererà con individui non imparentati a
meno che questo non sia di ovvio vantaggio per lui.
Può darsi, però, che nascano situazioni in cui la cooperazione tra individui porti
con se vantaggi molto significativi. Può darsi, ad esempio, che certi grandi
animali possano essere cacciati solo in gruppo; magari all'individuo non
toccherà che una piccola porzione di carne, ma senza l'aiuto degli altri non
avrebbe ottenuto nulla. Le tendenze comportamentali messe a punto
attraverso la selezione individuale possono in questo caso diventare un grande
pericolo: la competizione genetica fra i cooperatori rischia di minare la
possibilità stessa di cooperare.
Nell'esempio precedente, è chiaro che ogni individuo vorrebbe per se tutta la
preda, ma se la caccia non può essere vantaggiosa per tutti, finirà col non
esserlo per nessuno, perché i cacciatori non saranno più disposti a cooperare.
A questo punto è chiaro che l'evoluzione culturale (o, al limite, anche biologica)
di tendenze comportamentali che favoriscano la cooperazione fra gli individui
sarà vantaggiosa per il gruppo, e, attraverso di esso, per i singoli individui,
anche se nel breve termine queste tendenze comportano per essi rinunce e
sacrifici.
Nell’ambito delle teorie evoluzioniste è oggi piuttosto diffusa, benché tutt'altro
che pacifica, la convinzione che nell'evoluzione umana (e non solo in essa) la
selezione di gruppo abbia giocato un ruolo essenziale, che cioè i meccanismi
selettivi abbiano operato anche a livello di gruppo, favorendo lo sviluppo di
tendenze comportamentali che non avrebbero alcun senso se gli individui
operassero come singoli.
I meccanismi attraverso cui la selezione di gruppo può operare sono molti: il
gruppo più efficiente, quello capace di cooperare più proficuamente, può
sconfiggere i gruppi rivali imponendogli la propria cultura, può attirare individui
provenienti da altri gruppi, può dare luogo a fenomeni di imitazione, può
semplicemente essere "premiato" da una crescita demografica assai più rapida
rispetto agli altri. Naturalmente, ogni gruppo potrà sviluppare anche costumi e
credenze funzionalmente neutri, utili magari soltanto come indicatori
dell'appartenenza al gruppo, che la selezione finirà per premiare in quanto
appartenenti al complesso culturale vincente.
Il primo quesito interessante di questo studio, a mio parere, è quale
motivazione spinga l’uomo primitivo e lo scimpanzé alla caccia, nonostante
questa attività non sia indispensabile alla sopravvivenza in entrambe le specie.
Questa domanda è ancor più intrigante per l’uomo moderno che si è
completamente svincolato dalla caccia del selvatico per procurarsi le proteine
animali di cui necessita la sua dieta.
E’ inutile che vi enumeri quante pagine si siano scritte su questo argomento
controverso e quante teorie differenti abbiano prodotto gli antropologi, senza
giungere ad una conclusione univoca.
La risposta al quesito: perché l’uomo caccia risponderebbe parzialmente anche
alla domanda perché un istinto così ferino sopravviva in una società
tecnologicamente avanzata senza essere più funzionale alla sopravvivenza
dell’uomo.
Lo scimpanzé caccia quando è già sazio.
L’uomo primitivo poteva sopravvivere con la sola raccolta (le percentuali di
apporto di cibo alla sua dieta nelle società di cacciatori raccoglitori oscillavano
tra il 10 e il 40 %)
L’uomo moderno continua a cacciare, malgrado le culture dominanti mettano in
discussione da tempo questa pratica per la forte riduzione delle popolazioni
selvatiche.
Dov’è l’origine di questo istinto funzionale alla dieta di un felino, ma non
fondamentale per lo scimpanzé e per l’uomo?
Raffaele Caterina accenna all’esistenza di ipotesi sul motivo che spinge l’uomo
alla caccia, ma non le espone, rivelando l’imbarazzo degli studiosi nell’uscire
dalla documentazione del comportamento, delle usanze e della cultura dei
gruppi sociali per tentare di spiegare l’origine delle pulsioni, degli istinti e delle
regole sociali.
Il 25 ottobre del 2000 è stata data la notizia che a nord ovest di Nairobi , in
Kenya sono stati ritrovati i resti di 5 individui risalenti a 6 milioni di anni fa
(mandibole con denti, denti isolati, ossa delle braccia e delle gambe ed un dito)
attribuiti all’antenato comune degli ominidi e delle scimmie antropomorfe
(l’anello mancante!). Da un primo studio sembra che anche questo antenato si
cibasse di vegetali e piccoli animali, quindi, il quesito sull’origine della pulsione
della caccia si sposta ancora più indietro nel tempo.
Viene spontaneo, allora, chiedersi: la caccia offriva solo proteine o era anche
una attività/gioco funzionale allo sviluppo della socialità e dell’intelligenza?
Come gli animali cercano e trovano i siti dove giacciono minerali indispensabili
per il loro metabolismo, possono cercare questo cibo che fugge, non
indispensabile alla loro dieta, ma così importante per sollecitare le connessioni
neurali che miglioreranno le difese, e per i maschi più abili il premio della
supremazia sul gruppo.
Non dimentichiamo che nei periodi di siccità e di penuria di vegetali, la carne
offre un’alternativa alimentare e una maggiore garanzia di sopravvivenza.
Una tesi che giustifica la predazione in un onnivoro si può inquadrare in una
maggiore adattabilità di questa specie alle risorse ambientali
Ho appena esposto un’ipotesi personale, ma senza approfondire questa
supposizione o vagliarne altre, è innegabile che lo sforzo mentale per cercare
di catturare un animale che fugge, studiare strategie vincenti, cooperare in
gruppo per l’inseguimento, abbia contribuito all’evoluzione dell’intelligenza e
della socialità, sia nell’uomo che negli altri animali.
Non è un caso che i vegetali, costretti all’immobilità non abbiano sviluppato
alcun evidente grado di intelligenza.
Alla fine di ogni considerazione resta il fatto che per milioni di anni animali ed
uomini sono stati selezionati sulla base della loro abilità nella caccia.
Senza dubbio, questo condizionamento è uno dei più antichi cui siamo soggetti
e per molto tempo ancora lo porteremo gelosamente dentro di noi senza
comprenderne fino in fondo la sua funzione.